Feste familiari romane:

 

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Il Matrimonio nell'antica Roma:

Allora come oggi il matrimonio era preceduto dal fidanzamento; a scambiarsi la promessa erano i parente dei due giovani, e si usava la formula:

"Spondesne?"     ("Prometti?")

 

"Spondeo!"     ("Prometto!")

Il fidanzato donava alla fidanzata un anello... di ferro e... una somma di denaro. Poi si trattava di scegliere il giorno delle nozze, ed era ardua impresa perché il calendario romano era un labirinto di giorni e di mesi considerati di cattivo augurio, ed i Romani erano gente superstiziosissima. Guai, ad esempio, sposare alle Calende, o alle Idi, o alle None (guarda Calendario romano), o in certe solennità; disgraziatissimi erano tutto il mese di maggio e la prima metà di giugno.

Giunto il mese prescelto, la sposa indossava una tunica candita e un mantello colorato. I suoi capelli venivano acconciati in un modo speciale e legati con nastri; sul capo le veniva posto un velo color rosso acceso che scendeva a coprirle la metà del viso. Per tutta la giornata la sposa restava affidata alla "pronuba", una donna sposata, che le faceva da madrina. All'alba giungevano lo sposo e i dieci testimoni. Per prima cosa si celebrava un sacrificio, per ottenere il favore degli dei sulla nuova famiglia, poi si sottoscriveva il "contratto nuziale". Veniva poi il momento più solenne della cerimonia: la pronuba prendeva le destre degli sposi e le univa, ponendole una sull'altra. Concluse così le cerimonie, si dava inizio al banchetto che si protraeva fino al tramonto; allora si formava un corteo, per accompagnare la sposa alla sua nuova casa; il corteo era preceduto da suonatori di flauto e da ragazzi che agitavano delle torce. La sposa camminava portando il fuso e la conocchia, simboli del lavoro domestico a cui si sarebbe dedicata da quel giorno. Lo sposo, invece, gettava ai ragazzi che accorrevano al passaggio del corteo delle manciate di noci. Poiché, con le noci, i ragazzi romani giocavano, quei lanci significavano che egli ormai rinunciava  per sempre ai giochi di ragazzo; per non essere da meno, anche la sposa, il giorno precedente, aveva portato in un tempio i suoi vecchi giocattoli. Ecco, il corteo giunge alla casa degli sposi; la porta è ornata con fronde e bende di lana. Il marito, dalla soglia, chiede alla moglie chi ella sia, ed è qui che la sposa risponde:

"Ubi tu Gaius, ego Gaia"     ("Dove tu sei Gaio, io sarò Gaia", a cui si da il bellissimo significato di "Dove tu sei, anche io sarò")

"Feliciter! Talassio! Talassio!", gridavano intanto, intorno, i parenti e gli amici: erano grida di festa, il cui significato, in parte, ci è ignoto.

È giunto finalmente il momento che ella entri nella sua nuova casa: ma se, nel varcare la soglia, incespicasse e cadesse? Un simile incidente, proprio al primo giorno, sarebbe di pessimo augurio; e perché ciò non possa assolutamente succedere, i presenti sollevano di peso la sposa e, così sollevata, la portano fin dentro la casa!

La Nascita nell'antica Roma:

Quando in una famiglia romana nasceva un figlio, il piccino veniva presentato al padre, perché questi dicesse se intendeva riconoscerlo come suo. Il padre allora lo prendeva fra le braccia e lo teneva ritto. Così il neonato entrava a far parte della famiglia. Si attendeva otto giorni per dare il nome alle femmine, nove per dar nome ai maschi. Quel giorno si appendeva al collo del bambino la "bulla", un medaglione contenente qualche amuleto; la bulla veniva portata dai maschi fino a 17 anni, dalle femmine fino al matrimonio. Ma poteva anche accadere che il padre non accettasse come suo il bambino nato nella sua casa: vi era, ad esempio, la triste consuetudine di rifiutare tutti i bambini troppo gracili o deformi. I poveri piccini, allora, venivano "esposti", ossia abbandonati in un luogo pubblico (generalmente al mercato delle erbe, presso una colonna). Là, spesso, morivano di fame e di freddo; ma poteva anche accadere che qualche persona compassionevole li raccogliesse, per portarli nella sua casa e allevarli.

La Maggiore Età nell'antica Roma:

A 17 anni l'educazione del ragazzo romano doveva essere compiuta: a quell'età egli era considerato maggiorenne e acquistava il diritto di partecipare alla vita pubblica e di prestare servizio nell'esercito. Ogni giovane festeggiava questo avvenimento con una cerimonia che doveva svolgersi il 17 marzo. Quel giorno, egli si faceva tagliare i capelli, che sin allora aveva portato lunghi, si toglieva la "bulla", una specie di amuleto che aveva protetto la sua infanzia, e la poneva nella cappelletta, tra le statue degli dei protettori della famiglia. Anche la veste veniva cambiata: da quel giorno il giovane non indossava più la toga adorna di porpora, chiamata toga pretesta (dal latino praetexta, adorna intorno), ma vestiva la toga virile (dal latino vir, uomo), che era completamente bianca.

Una data importante nell'antica Roma:

Noi sappiamo che Cesare Ottaviano Augusto si tagliò la barba, per la prima volta, a ventiquattro anni d'età, nel settembre del 39 avanti Cristo, che Marcello se la rasò nel 25 avanti Cristo, e che Caligola e Nerone se la rasarono per la prima volta il giorno stesso in cui deposero la "bulla". Come si può facilmente comprendere, per il cittadino romano, quella del giorno in cui per la prima volta si era tagliato la barba era una delle date più importanti della vita; e, quando si trattava della barba di un personaggio famoso, gli storici ne prendevano accuratamente nota. La peluria tagliata veniva poi conservata in qualche vasetto, consacrata agli dei e tenuta fra le cose più care. Il solito ambiziosissimo Nerone conservava la sua prima "lanugo" nientemeno che in una pisside d'oro consacrata a Giove Capitolino: ma si capisce, era barba di imperatore!